venerdì 19 aprile 2013

Francesco Roat, lo sguardo di un bambino sull'Inferno Auschwitz

Infanzie violate tra i reticolati di Auschwitz. Come quella di Ruben, piccolo giudeo “cagasotto”, come lo deridono i suoi compagni di classe. Finché una notte l'Inferno gli apre le porte, dipanando lentamente, davanti ai suoi occhi, un male inconcepibile per la mente di un bambino. Con “I giocattoli di Auschwitz” di Francesco Roat (Lindau, pp. 292, 2013) riaffiora la storia del giovane ebreo meranese, marionetta tra le mani di ufficiale delle SS, un “salvato” per il suo talento con il clarinetto, e una sala che ha racchiuso per molto, troppo tempo, nella sua pancia ingorda l'unica testimonianza di un'innocenza violentata.
Come nasce questo romanzo? Prima di tutto mi preme ricordare che la mia storia prende spunto da un fatto storico vero. I primi ebrei italiani ad essere mandati ad Auschwitz furono proprio dei meranesi. Dopo l'8 settembre i tedeschi erano già presenti in questi territori e i meranesi i primi lungo il confine. Il secondo dato fa riferimento al fatto che sono stati realmente trovati dei giocattoli ad Auschwitz, non è nulla di inventato. Nel loro maniacale impulso nel classificare ogni cosa che passava loro sotto le mani, i nazisti avevano raccolto e catalogato i giocattoli “rubati” ai bambini appena arrivati al campo. Giocattoli che poi sono l'emblema di quell'infanzia negata. Io faccio parte della gente che scrive senza prefissarsi delle linee guida …

l'analogia (bambini che diventano giocattoli e giocattoli rinchiusi in una stanza) è stata frutto del caso, perché ogni personaggio in questo romanzo ha il suo destino interno e l'autore non può fare altro che guardare le cose fino ad un certo punto. Che effetto ha su Ruben lo scoprirsi oggetto, giocattolo, e non più essere umano? Non gli fa nessun effetto particolare, non c'è uno stravolgimento vero e proprio. Quello che però ho cercato di trasmettere attraverso questi personaggi è il fare in modo che sia il lettore a dare una sua risposta e a reagire … io ho dato solo degli stimoli, per interrogarsi. Sta a chi legge dire la sua attorno a questo tema del male, della sofferenza, della violenza nei confronti di un innocente. Il mio non vuole essere però un discorso moralistico … guai all'autore di prosa delineare i buoni e i cattivi, come avrei potuto fare facilmente con la figura dell'ufficiale delle SS. Troppo comodo. Da giudeo “cagasotto” a adulto consapevole. Cosa spinge Ruben ad alzare lo sguardo e “perdonarsi” per quello che ha fatto (o crede di aver fatto)? Il ragazzo alla fine si sente afflitto da un forte complesso di colpa, non riesce a capire che l'innocente non ha mai colpa, ma che lui è stato stritolato dalla situazione in cui si è trovato. Se ci penso bene, però, è anche vero - come diceva Primo Levi - che la prima cosa che si perde in un lager è l'innocenza, perché ci si trova assorbiti da un male che contagia, tanto e vero che alla fine lui deve andare in analisi perché da solo non ne viene fuori. Oltre ad essere un romanzo di formazione, “I giocattoli di Auschwitz” è senza dubbio anche un romanzo della memoria. Come ha recuperato le informazioni per stendere il testo e quanta verità è mescolata all'iniziativa dell'autore? Anche se in coda “simulo” uno verosimile stralcio di articolo di giornale, devo subito mettere in chiaro le cose: la storia di Ruben è frutto della mia fantasia. Alla base c'è un grosso lavoro di ricerca, molto interessante, che mi ha impegnato molto, leggendo libri su libri che parlavano di lager, come erano organizzati … ma la storia è solo un'invenzione. Lo spunto è nato dopo aver visto la “Vita è bella” di Benigni: non ero rimasto soddisfatto del tutto, non mi era parso del tutto convincente. Avrei preferito vedere una storia sui bambini nei lager raccontata attraverso un altro registro, quello che ho cercato di usare io. Alla fine non si capisce bene quale sia il giudizio che Ruben ha nei confronti del suo protettore. Qualcosa di voluto per lasciare spazio a qualsiasi interpretazione? Come ho detto prima un narratore dovrebbe astenersi da giudizi, ma in questo caso ho evitato di incappare in qualsiasi forma di semplificazione storica, offrendo sfumature, proprio come nel caso dell'ufficiale nazista che “prende in consegna” Ruben. Alcune di quelle persone che hanno avuto a che fare con questo orrore hanno salvato prigionieri dai lager, e questo mio discorso non vuole aver nessuna inclinazione negazionista - la denuncia dell'Olocausto nel mio romanzo è netta e chiara - ma mi importava prendere atto della verità. La figura di Ruben si avvicina a quella dei “salvati” di Primo Levi. Può esserci un'analogia? Pensandoci sopra, sì. Ogni persona che è riuscita a salvarsi si assomiglia, ma tornando a dire quello a cui ho accennato prima,alla fine i “salvati” non si sono salvati del tutto, sul braccio il tatuaggio rimane impresso nella carne e nell'anima. Progetti letterari per il futuro? Un finto diario di Eva Braun rinchiusa nel bunker prima del fatidico matrimonio, a 24 ore dall'ultimo atto, il suicidio …. un'innocenza tradita anche quella.

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